La violenza è violenza. Punto.
E chi è violento non lo è solo con le donne: lo è con i bambini, con i suoi pari, con chi percepisce più fragile. È un modo di stare nel mondo, non un’occasione. E se il racconto pubblico concentra tutto su un’unica forma di violenza, rischiamo di non vedere il fenomeno nella sua interezza e di perderne la radice.
Dietro ogni gesto violento non c’è un titolo, c’è una struttura.
E qui le parole degli psicologi ci aiutano a vedere ciò che spesso non vogliamo vedere. Come ricorda Maria Antonietta Gulino, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana e del Consiglio nazionale:
«La violenza non è mai improvvisa. È il modo in cui molte fragilità esplodono quando non trovano ascolto».
I dati Espad Italia 2024 lo confermano: aggressività, abuso di sostanze, isolamento digitale e fragilità emotive si intrecciano. Il binge drinking riguarda il 37% dei giovani violenti; il fumo quotidiano il 27%; l’uso problematico di internet è nettamente più diffuso. Non è devianza improvvisa: è sofferenza psicologica non riconosciuta.
E mentre discutiamo — spesso in superficie — di femminicidi, le famiglie restano sole, i servizi faticano, l’accesso alla salute mentale è difficile e diseguale. Gulino lo ripete con chiarezza:
«Non si può chiedere ai genitori di essere forti quando vengono lasciati soli».
La prevenzione esiste, e ha un nome preciso: psicologo di base, ascolto precoce, spazi educativi continui.
Il resto rischia di essere solo rumore.
Perché, alla fine, la violenza non è una questione di genere.
È una questione di società.